domenica 25 maggio 2014

Ti piacciono le citazioni?

Che la nostra sia una società veloce è chiaro a tutti. Se vuoi postare un video su YouTube che abbia una qualche possibilità di essere visto, meglio non superi i 3 minuti. Se vuoi scrivere un pensiero su Facebook, stai attento alle righe concesse in lettura veloce. Quelle che si potrebbero leggere cliccando sul link: Altro... vanno di solito perdute.Twitter ti permette pochi caratteri, di solito per rimandare a un link più esteso.
Luoghi della scrittura vera restano i Blog.
Ragioniamoci.
Io, che sono una persona normale, per costruire un pensiero ho bisogno di un bel po' di tempo, per scriverlo in modo comprensibile di almeno 10 volte tanto.  Per passare da una argomentazione a una conclusione di molte righe. Ma non sono prolissa. Sono normale. Riproduco quello che accade nella vita quotidiana. Quando parlo, quando partecipo a una conversazione, quando spiego un concetto, non vado per aforismi, per citazioni di altri. Elaboro, programmo ed esprimo un pensiero che credo originale. Esso, come ogni opera artigiana, ha bisogno di tempo e spazio (quello della pagina) per venire alla luce.
Se di una nostra lettera significativa si citasse la frase compresa tra la riga 22 e la 24, magari argutissima, verrebbe fuori qualcosa di nostro? Se si citassero le 15 parole dette al matrimonio del cugino dopo il brindisi che accompagnava la torta, ne verrebbe un cammeo di quanto pensiamo sull'amore e l'unione degli sposi? Se fosse così la nostra vita ne sarebbe annientata.
Quando sono nata, mio padre, accasciandosi su una sedia dopo una notte insonne, ha pronunciato la frase "tutto lavoro inutile", pensando a chissà che. Dalla famiglia essa è stata immediatamente interpretata come distillato del suo pensiero sul valore di un primogenito femmina e per sempre legata alla mia persona, tanto da essere ripetuta, come profezia che si avvera, ad ogni mio fallimento scolastico.  La delusione tipica degli anni '50 che accompagnava la nascita di una bambina, ha fatto di 3 parole, dico 3, l' ipse dixit di un padre deluso e di me stessa l'incarnazione vivente della sua inutile fatica.
La brevità nella quale posso esprimermi sui social mi condanna a comunicazioni di servizio: il tal giorno c'è il tal evento, nel tal posto è successa la tal cosa; ad esternazioni emotive, a link a siti dove si può finalmente respirare un po'. Ma la condanna peggiore inflittami dalla brevità del post è quella di farmi trovare comodo e spazioso il loculo di una citazione.
Mentre le foto mi affascinano, le vignette di Mafalda e di Linus mi fanno ridere alle lacrime (loro sì sono esaustive in se stesse), le citazioni mi sembrano macabre dissezioni del corpo letterario di un artista. Un lavoro da anatomisti o, peggio, da religiosi medioevali squartatori che, morta la santa, se ne contendono il corpo, ottenendo chi un dente, chi un femore, chi, più fortunato, la testa o il cuore.
Cosa rimane di un brandello di lettera, di un finale di pagina, di una battuta di teatro? Un campo aperto a ogni fraintendimento.
Facebook non sostituirà mai i blog, dove il dialogo è vero, la conoscenza del pensiero dell'autore possibile.
Così come la divulgazione scientifica sparsa nella rete non sostituirà i luoghi del sapere, le aule, i siti nei quali si parla di scienza e anche, perché no?, si fa divulgazione, ma corretta, puntuale, aggiornata.
Frasi belle ne hanno dette in molti, cosa volessero dire quando le scrivevano non lo possiamo sapere se non con un accurata ricerca e lettura dell'opera dalla quale sono tratte.
Le citazioni non veicolano il pensiero dei loro autori. Esse sono un gioco che riporta quel poco di attenzione che ci è rimasta  su di noi e ci permettono di riflettere per il tempo di tre righe.

mercoledì 30 aprile 2014

La vita infinita

Mia nonna era abituata a dirmi: "il cervello è un muscolo come un altro", salvo poi ammonirmi con questa frase: "chi troppo studia matto diventa". Il cervello non è un muscolo, anche se si giova dell'attività. Come tutti gli apparati decade. E senza ritorno. La medicina sta concedendo all'occidente quindici anni in più, ma non di vita, di vecchiaia, di lenta, drammatica decadenza.Una vecchiaia inesorabile che, proprio dal punto di vista neurologico, non è rimediabile. Possiamo agire sul trofismo cutaneo, ridurre le rughe, mettere una protesi d'anca, controllare le malattie croniche ma ci è dato di operare solo marginalmente sulla decadenza cognitiva.
Sino alla metà dell'ottocento le problematiche relative alla menopausa non esistevano, e per una semplice ragione, l'età media delle donne era 49 anni! Andare in menopausa capitava a poche. E' con sollievo che da medico affronto con le mie pazienti la fine dell'età fertile: non si muore più di parto e la salute della donna è meglio difesa. L'invecchiamento femminile è utile alla società. Portata a termine la fatica dell'allevamento possiamo rivolgerci al nostro lavoro con rinnovato entusiasmo senza rinunciare al compito della cura (la salute dei bambini è migliore se in famiglia le nonne sono presenti).
A 60, 70 anni il cervello femminile è attivo, laborioso. Ma a 80, 90?
Il dato dall'invecchiamento della popolazione non mi rasserena, anzi mi pone quesiti etici che non so risolvere. Quando sono nata la mia aspettativa di vita era di 72 anni, ora è di 84, domani forse potrò sperare nel secolo. Di me cosa resterà, se i farmaci manterranno in vita il mio involucro fisico?
Rallegrarsi per una durata sterminata della vita è  non aver fatto i conti con la finitezza del tessuto biologico, non aver differenziato tra il riparabile e l'irreparabile. La vita dei miei neuroni ha un termine, il tempo usura le cartilagine delle mie articolazioni e l'osteoporosi mette a rischio l'integrità delle mie ossa ma se sul mio apparato locomotore ho qualche cartuccia da sparare, sul primo evento sono completamente disarmata.
La mia identità non risiede nel potermi muovere, su una carrozzina sarei pur sempre io, la mia identità è nella mia memoria (di me, di chi sono, di chi ero), nella mia progettualità e nella mia capacità di capire, relazionarmi, partecipare. Pensare a un futuro nel quale le risorse della generazione dei miei figli (e banalmente parlo di tempo e denaro, ciò con cui ogni giorno facciamo i conti) saranno utilizzate per mantenermi in vita, demente, affidata a una badante mentre i mie nipoti non troveranno lavoro per l'enorme spesa sanitaria che la società dovrà pagare per la cura della decadenza senile, mi sgomenta. Una società, nella quale le organizzazioni che potranno essere considerate redditizie saranno quella deputate all'invalidità permanente (industria dei sanitari adattati, industria farmaceutica, enti assistenziali) mentre le giovani imprese non riceveranno finanziamenti, le famiglie non si formeranno, non potendo usufruire di quell'asse ereditario che permette ai nipoti di abitare la casa dei nonni e ai figli di investire sul futuro, mi pare una società avviata alla decadenza.
La problematica dell'invecchiamento non è solo una questione medica, essa è principalmente etica e culturale. La morte e la fine della vita sono scotomizzate da un pensiero fragile che investe su una giovinezza cercata e trattenuta dai quaranta-cinquantenni ma non sui giovani reali, che  non sa difendere. La vita non giunge a maturità, inibita dalla paura di perdere la soddisfazione narcisistica e si rifugia nella vecchiaia infinita per non venire alla resa dei conti: quanto abbiamo dato? per chi e cosa ci siamo spesi?

I social come luogo della richiesta

Ho pensato ai casi di adolescenti che si sono suicidate recentemente. Le ragioni sono spesso degli apprezzamenti sull' aspetto fisico: "sei brutta",  "vai a nasconderti" ecc.
Ora, se delle frasi postate da sconosciuti sul profilo di un network hanno tanto sconvolto recentemente una bimba di 14 anni è perché inevitabilmente, sempre e a ogni età, tutti noi ci identifichiamo con la nostra fisicità.
Vogliamo essere apprezzati, guardatati, toccati, accarezzati per sentirci degni di esistere e di abitare il mondo. 
Questo desiderio è così radicato nella nostra specie che addirittura non tolleriamo neppure che uno sconosciuto vada a lacerare la nostra immagine, vada a infangare con un commento sgradevole la debole, fragile, tremante identità che ci stiamo costruendo. 
Sì perché l'identità, quella vera che ti fa dire "io sono io", anche noi che ormai siamo vecchi ce la siamo costruita guardandoci allo specchio, e con occhi severi. Solo lo sguardo di chi ci ha voluto bene, narcisi a parte, è stato in grado di farci accettare la figurina che ci sembrava così priva di attrattiva, di farci sopportare i fianchi larghi o stretti, le gambe storte, gli occhi prominenti. Noi, se fossimo stati i giudici, non ci saremmo perdonati.
Chi ci ama ci aiuta ad affrontare questa distanza dalla armonia e dalla perfezione alle quali, non si sa per quale ragione, ci sentiamo destinati. Sentirci amati ci rende possibile presentarci agli altri per quello che siamo, chiedendo e dando comprensione perché per primi siamo stati accettati e compresi.
Per l'adolescente tale desiderio di amore è assoluto, dirompente. In questo periodo (come in tutte le "età fragili" della nostra vita) abbiamo bisogno anche dell'amore degli sconosciuti. Credo che i social network siano un luogo nel quale questa richiesta viene gridata. 

voceoggi: Bambini che cantano

voceoggi: Bambini che cantano: Desidero condividere alcune considerazioni relative al canto nell'infanzia. La prima considerazione riguarda la voce bianca. Il termine...

mercoledì 12 febbraio 2014

Se la vita diventa cibo deve passare dalla morte

Della vicenda, triste di per sé, della giraffa eliminata in uno zoo, la cosa che più mi ha impressionato è che essa sia stata sezionata (la notizia mi sembra incredibile, spero sia falsa) anche alla vista di bambini e che parti del suo corpo (la foto era pubblicata!) siano state date in pasto ai leoni sotto gli occhi sempre di bimbi che non raggiungevano i 10 anni di età.
Mi ha ricordato la mia prima lezione di anatomia. Sul tavolo di marmo c'era un "preparato" ( gli anatomisti chiamano così le parti di cadaveri). Nel mio caso un braccio, sezionato all'altezza della spalla.
Nessuno  dei mie docenti mi aveva  preparato a questo. Utilizzare della morte per imparare.
Mentre i colleghi di corso si affollavano per ottenere i posti migliori intorno al tavolo anatomico, io provavo solo un immenso senso di pena. Non solo per quel povero resto, per la persona cui era appartenuto, tecnicamente un "cadavere non reclamato", ma per tutti noi, resi ciechi dal desiderio di vedere e spavaldi dalla giovane età.
Me ne sono andata.
Ora mi chiedo, i bimbi pigiati intorno alla gabbia dei leoni, con il resto di giraffa dal bel manto riconoscibile, da chi sono stati preparati? Chi ha mediato per loro questo incontro? La pietà dei macellai seziona e affetta la carne che mangiamo, separandola così dall'immagine che noi custodiamo del vivente cui apparteneva e al quale, in ogni modo, ci sentiamo accomunati come abitanti del pianeta


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martedì 31 dicembre 2013

Le nostre origini

Giorni fa con Roberta Gambarini riflettevo sulla necessità di dichiarare, anche nel mondo del lavoro, le nostre origini, da dove veniamo, culturalmente e geograficamente. Lei "vive nel mondo", non credo passi più di due settimane nella stessa città, io vivo nel mio cortile, ma l'esigenza è la medesima. Lavorare dichiarando chi siamo.
Sa devo pensare al luogo dal quale provengo, direi il Mediterraneo e la Grecia classica, passando dal banco del liceo di via Lanzone. Io vengo da là, dalla poesia dei lirici, dalla tragedia, dai misteri eleusini. Baccanti di Euripide nella mia mente si confonde con la Taranta del nostro Sud. Gli attori, maschi, di Epidauro nella fantasia camminano dignitosi a fianco della carovana dei comici della Commedia dell'Arte, in un'unitaria processione composta da  "coloro che rappresentano altri", che è arrivata sino alla mia famiglia, alla compagnia di giro dei mie bisnonni, la cui memoria riposa ora nel baule di scena scampato all'ultima tournée. Dentro di me si è sedimentata sulla poesia di Saffo la mia esperienza femminile amorosa e nelle icone  delle divinità asiatiche, che ho incontrato da ragazza, ho ritrovato il sorriso arcaico della Atena del primo Partenone.

giovedì 28 febbraio 2013

La creatività delle file

Il Corriere della Sera riportava giorni fa una ricerca secondo la quale il tempo che passiamo in fila, aspettando il nostro turno, è di alcune centinaia di ore l'anno. Nell'articolo tale tempo veniva considerato come strappato alla vita. Tempo perduto. Mi permetto di dissentire. Adoro le file, mi concedono una libertà impossibile da raggiungere in altre occasioni, riposo, quiete e solitaria meditazione.
Ho trovato molte soluzioni a problemi personali e lavorativi in fila, col mio numero progressivo in mano. Mi sono dedicata, legittimamente  alla mia attività preferita: osservare la gente, in fila al bancone del supermercato. In fila, dal panettiere, in una via del centro di Milano, ho scritto su un tovagliolo di carta la poesia che mi ha fruttato un primo premio a un concorso di opere inedite. Sempre in fila, alla posta, su un bollettino, ho scritto una brevissima seconda poesia, che mi ha dato la possibilità di venir pubblicata in una antologia tutta al femminile.
Non avrei trovato migliore ispirazione, ascoltavo, vedevo, guardavo, annusavo. Finalmente sola, libera, in giustificato riposo.