lunedì 28 gennaio 2013

Anni fa, non so se si trattasse del report di un articolo scientifico o di una leggenda passata per tale, avevo letto su una rivista che una pianta, posta a fianco di una pentola in ebollizione, dimostrava segni di sofferenza quando in quella venivano gettati dei gamberi vivi. Una sorta di "vitale partecipazione" alla morte di un altro essere vivente. Questo è quello che provo ogni volta che  leggo della sofferenza degli altri o che la incontro per la strada o nel mio studio. Per un circuito, che non ha nulla a che fare con le fibre afferenti nocicettive, i miei neuroni entrano in sofferenza, in condoglianza. E questo non mi genera solo un malessere psichico (come potrebbe essere se si trattasse solo di un'increzione di cortisolo) ma un dolore fisico, così che tutta la mia omeostasi ne viene turbata. La morte di tanti ragazzi, che avrebbero potuto essere stati miei figli, nella discoteca brasiliana, i morti dell'Egitto in questi giorni, tutto mi fa male. Mi ricordo una lettera di Raine Maria Rilke a Lou Salomé nella quale descriveva, con perizia da neurologo, un passante affetto da corea  e la sofferenza insopportabile che l'incontro gli aveva generato. Incontro tanto significativo da essere inserito, trasposizione della vita in arte, nel suo testo "I quaderni di Malte L. Brigge".