mercoledì 30 aprile 2014

La vita infinita

Mia nonna era abituata a dirmi: "il cervello è un muscolo come un altro", salvo poi ammonirmi con questa frase: "chi troppo studia matto diventa". Il cervello non è un muscolo, anche se si giova dell'attività. Come tutti gli apparati decade. E senza ritorno. La medicina sta concedendo all'occidente quindici anni in più, ma non di vita, di vecchiaia, di lenta, drammatica decadenza.Una vecchiaia inesorabile che, proprio dal punto di vista neurologico, non è rimediabile. Possiamo agire sul trofismo cutaneo, ridurre le rughe, mettere una protesi d'anca, controllare le malattie croniche ma ci è dato di operare solo marginalmente sulla decadenza cognitiva.
Sino alla metà dell'ottocento le problematiche relative alla menopausa non esistevano, e per una semplice ragione, l'età media delle donne era 49 anni! Andare in menopausa capitava a poche. E' con sollievo che da medico affronto con le mie pazienti la fine dell'età fertile: non si muore più di parto e la salute della donna è meglio difesa. L'invecchiamento femminile è utile alla società. Portata a termine la fatica dell'allevamento possiamo rivolgerci al nostro lavoro con rinnovato entusiasmo senza rinunciare al compito della cura (la salute dei bambini è migliore se in famiglia le nonne sono presenti).
A 60, 70 anni il cervello femminile è attivo, laborioso. Ma a 80, 90?
Il dato dall'invecchiamento della popolazione non mi rasserena, anzi mi pone quesiti etici che non so risolvere. Quando sono nata la mia aspettativa di vita era di 72 anni, ora è di 84, domani forse potrò sperare nel secolo. Di me cosa resterà, se i farmaci manterranno in vita il mio involucro fisico?
Rallegrarsi per una durata sterminata della vita è  non aver fatto i conti con la finitezza del tessuto biologico, non aver differenziato tra il riparabile e l'irreparabile. La vita dei miei neuroni ha un termine, il tempo usura le cartilagine delle mie articolazioni e l'osteoporosi mette a rischio l'integrità delle mie ossa ma se sul mio apparato locomotore ho qualche cartuccia da sparare, sul primo evento sono completamente disarmata.
La mia identità non risiede nel potermi muovere, su una carrozzina sarei pur sempre io, la mia identità è nella mia memoria (di me, di chi sono, di chi ero), nella mia progettualità e nella mia capacità di capire, relazionarmi, partecipare. Pensare a un futuro nel quale le risorse della generazione dei miei figli (e banalmente parlo di tempo e denaro, ciò con cui ogni giorno facciamo i conti) saranno utilizzate per mantenermi in vita, demente, affidata a una badante mentre i mie nipoti non troveranno lavoro per l'enorme spesa sanitaria che la società dovrà pagare per la cura della decadenza senile, mi sgomenta. Una società, nella quale le organizzazioni che potranno essere considerate redditizie saranno quella deputate all'invalidità permanente (industria dei sanitari adattati, industria farmaceutica, enti assistenziali) mentre le giovani imprese non riceveranno finanziamenti, le famiglie non si formeranno, non potendo usufruire di quell'asse ereditario che permette ai nipoti di abitare la casa dei nonni e ai figli di investire sul futuro, mi pare una società avviata alla decadenza.
La problematica dell'invecchiamento non è solo una questione medica, essa è principalmente etica e culturale. La morte e la fine della vita sono scotomizzate da un pensiero fragile che investe su una giovinezza cercata e trattenuta dai quaranta-cinquantenni ma non sui giovani reali, che  non sa difendere. La vita non giunge a maturità, inibita dalla paura di perdere la soddisfazione narcisistica e si rifugia nella vecchiaia infinita per non venire alla resa dei conti: quanto abbiamo dato? per chi e cosa ci siamo spesi?

I social come luogo della richiesta

Ho pensato ai casi di adolescenti che si sono suicidate recentemente. Le ragioni sono spesso degli apprezzamenti sull' aspetto fisico: "sei brutta",  "vai a nasconderti" ecc.
Ora, se delle frasi postate da sconosciuti sul profilo di un network hanno tanto sconvolto recentemente una bimba di 14 anni è perché inevitabilmente, sempre e a ogni età, tutti noi ci identifichiamo con la nostra fisicità.
Vogliamo essere apprezzati, guardatati, toccati, accarezzati per sentirci degni di esistere e di abitare il mondo. 
Questo desiderio è così radicato nella nostra specie che addirittura non tolleriamo neppure che uno sconosciuto vada a lacerare la nostra immagine, vada a infangare con un commento sgradevole la debole, fragile, tremante identità che ci stiamo costruendo. 
Sì perché l'identità, quella vera che ti fa dire "io sono io", anche noi che ormai siamo vecchi ce la siamo costruita guardandoci allo specchio, e con occhi severi. Solo lo sguardo di chi ci ha voluto bene, narcisi a parte, è stato in grado di farci accettare la figurina che ci sembrava così priva di attrattiva, di farci sopportare i fianchi larghi o stretti, le gambe storte, gli occhi prominenti. Noi, se fossimo stati i giudici, non ci saremmo perdonati.
Chi ci ama ci aiuta ad affrontare questa distanza dalla armonia e dalla perfezione alle quali, non si sa per quale ragione, ci sentiamo destinati. Sentirci amati ci rende possibile presentarci agli altri per quello che siamo, chiedendo e dando comprensione perché per primi siamo stati accettati e compresi.
Per l'adolescente tale desiderio di amore è assoluto, dirompente. In questo periodo (come in tutte le "età fragili" della nostra vita) abbiamo bisogno anche dell'amore degli sconosciuti. Credo che i social network siano un luogo nel quale questa richiesta viene gridata. 

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