giovedì 28 febbraio 2013

La creatività delle file

Il Corriere della Sera riportava giorni fa una ricerca secondo la quale il tempo che passiamo in fila, aspettando il nostro turno, è di alcune centinaia di ore l'anno. Nell'articolo tale tempo veniva considerato come strappato alla vita. Tempo perduto. Mi permetto di dissentire. Adoro le file, mi concedono una libertà impossibile da raggiungere in altre occasioni, riposo, quiete e solitaria meditazione.
Ho trovato molte soluzioni a problemi personali e lavorativi in fila, col mio numero progressivo in mano. Mi sono dedicata, legittimamente  alla mia attività preferita: osservare la gente, in fila al bancone del supermercato. In fila, dal panettiere, in una via del centro di Milano, ho scritto su un tovagliolo di carta la poesia che mi ha fruttato un primo premio a un concorso di opere inedite. Sempre in fila, alla posta, su un bollettino, ho scritto una brevissima seconda poesia, che mi ha dato la possibilità di venir pubblicata in una antologia tutta al femminile.
Non avrei trovato migliore ispirazione, ascoltavo, vedevo, guardavo, annusavo. Finalmente sola, libera, in giustificato riposo.

martedì 5 febbraio 2013

Resilienza

Giorni fa il presidente americano Obama ha parlato di resilienza relativamente alla capacità della nazione di far fronte alla crisi economica. La parola è sembrata così strana che i giornali italiani hanno dedicato alcune pagine non solo a spiegarne il significato ma a esplicitarne l'etimo. In campo medico, soprattutto foniatrico, la parola è ben nota e il suo affiorare nel paziente è sperato perché portatore di una guarigione dalla sofferenza dell'anima nel confrontarsi con la malattia propria o di un famigliare e di far fronte al lutto che essa comporta.  La resilienza in medicina è la possibilità di trovare in se stessi la capacità di reagire a un trauma. Il termine, nella fisica, indica la caratteristica intrinseca di un corpo di non spezzarsi nell'impatto ma di respingere l'oggetto contundente senza creare danno neppure ad esso. Resiliente è in massimo grado il pavimento di legno di una sala danza, che accoglie il salto del danzatore e lo accompagna, e ne facilita, l'elevazione successiva. Nella nostra lingua, un buon metodo per conoscere il significato di un termine è cercare i suoi possibili sinonimi e le sue antinomie. Sono convinta, non fosse altro che per un criterio di linguistica economia, che di nessun concetto esistono due modalità espressive del tutto equivalenti. Se due parole davvero fossero dotate di un medesimo significato, una delle due sarebbe finita in disuso, completamente vicariata dall'altra. Resilienza si staglia quindi solitaria nel nostro vocabolario personale. Tanto solitaria da essere ignorata, figurarsi praticata. D'altra parte, se essa fosse una parola di uso comune, possederebbe un'antinomia, cioè un termine che esprime esattamente il suo contrario, tanto è vero che dei suoi "falsi sinonimi" possediamo antinomie evidenti. Ma resilienza si sottrae a questa seconda regola e, contemporaneamente, sfugge a ogni definizione mediata da termini appartenenti allo stesso universo semantico. Non è elasticità, la cui antinomia è rigidità. Non duttilità, non deformabilità. Il nostro animo, all'impatto del lutto, non si deforma (rimaniamo i medesimi, modificati), non si allunga facendosi tirare il fili (non siamo duttili alla perdita), non dimostra compliance (non ci comportiamo come una membrana microfonica). Non assorbiamo il lutto, il trauma, la malattia, né lo rimbalziamo, rendendocene impermeabili. Se siamo resilienti, ci comportiamo come il pavimento della sala danza: lo subiamo senza fratturarci e favoriamo il suo allontanamento, impedendogli di mettere radici dentro di noi. Favorire la resilienza del paziente, e la nostra stessa, è un compito.