martedì 31 dicembre 2013

Le nostre origini

Giorni fa con Roberta Gambarini riflettevo sulla necessità di dichiarare, anche nel mondo del lavoro, le nostre origini, da dove veniamo, culturalmente e geograficamente. Lei "vive nel mondo", non credo passi più di due settimane nella stessa città, io vivo nel mio cortile, ma l'esigenza è la medesima. Lavorare dichiarando chi siamo.
Sa devo pensare al luogo dal quale provengo, direi il Mediterraneo e la Grecia classica, passando dal banco del liceo di via Lanzone. Io vengo da là, dalla poesia dei lirici, dalla tragedia, dai misteri eleusini. Baccanti di Euripide nella mia mente si confonde con la Taranta del nostro Sud. Gli attori, maschi, di Epidauro nella fantasia camminano dignitosi a fianco della carovana dei comici della Commedia dell'Arte, in un'unitaria processione composta da  "coloro che rappresentano altri", che è arrivata sino alla mia famiglia, alla compagnia di giro dei mie bisnonni, la cui memoria riposa ora nel baule di scena scampato all'ultima tournée. Dentro di me si è sedimentata sulla poesia di Saffo la mia esperienza femminile amorosa e nelle icone  delle divinità asiatiche, che ho incontrato da ragazza, ho ritrovato il sorriso arcaico della Atena del primo Partenone.

giovedì 28 febbraio 2013

La creatività delle file

Il Corriere della Sera riportava giorni fa una ricerca secondo la quale il tempo che passiamo in fila, aspettando il nostro turno, è di alcune centinaia di ore l'anno. Nell'articolo tale tempo veniva considerato come strappato alla vita. Tempo perduto. Mi permetto di dissentire. Adoro le file, mi concedono una libertà impossibile da raggiungere in altre occasioni, riposo, quiete e solitaria meditazione.
Ho trovato molte soluzioni a problemi personali e lavorativi in fila, col mio numero progressivo in mano. Mi sono dedicata, legittimamente  alla mia attività preferita: osservare la gente, in fila al bancone del supermercato. In fila, dal panettiere, in una via del centro di Milano, ho scritto su un tovagliolo di carta la poesia che mi ha fruttato un primo premio a un concorso di opere inedite. Sempre in fila, alla posta, su un bollettino, ho scritto una brevissima seconda poesia, che mi ha dato la possibilità di venir pubblicata in una antologia tutta al femminile.
Non avrei trovato migliore ispirazione, ascoltavo, vedevo, guardavo, annusavo. Finalmente sola, libera, in giustificato riposo.

martedì 5 febbraio 2013

Resilienza

Giorni fa il presidente americano Obama ha parlato di resilienza relativamente alla capacità della nazione di far fronte alla crisi economica. La parola è sembrata così strana che i giornali italiani hanno dedicato alcune pagine non solo a spiegarne il significato ma a esplicitarne l'etimo. In campo medico, soprattutto foniatrico, la parola è ben nota e il suo affiorare nel paziente è sperato perché portatore di una guarigione dalla sofferenza dell'anima nel confrontarsi con la malattia propria o di un famigliare e di far fronte al lutto che essa comporta.  La resilienza in medicina è la possibilità di trovare in se stessi la capacità di reagire a un trauma. Il termine, nella fisica, indica la caratteristica intrinseca di un corpo di non spezzarsi nell'impatto ma di respingere l'oggetto contundente senza creare danno neppure ad esso. Resiliente è in massimo grado il pavimento di legno di una sala danza, che accoglie il salto del danzatore e lo accompagna, e ne facilita, l'elevazione successiva. Nella nostra lingua, un buon metodo per conoscere il significato di un termine è cercare i suoi possibili sinonimi e le sue antinomie. Sono convinta, non fosse altro che per un criterio di linguistica economia, che di nessun concetto esistono due modalità espressive del tutto equivalenti. Se due parole davvero fossero dotate di un medesimo significato, una delle due sarebbe finita in disuso, completamente vicariata dall'altra. Resilienza si staglia quindi solitaria nel nostro vocabolario personale. Tanto solitaria da essere ignorata, figurarsi praticata. D'altra parte, se essa fosse una parola di uso comune, possederebbe un'antinomia, cioè un termine che esprime esattamente il suo contrario, tanto è vero che dei suoi "falsi sinonimi" possediamo antinomie evidenti. Ma resilienza si sottrae a questa seconda regola e, contemporaneamente, sfugge a ogni definizione mediata da termini appartenenti allo stesso universo semantico. Non è elasticità, la cui antinomia è rigidità. Non duttilità, non deformabilità. Il nostro animo, all'impatto del lutto, non si deforma (rimaniamo i medesimi, modificati), non si allunga facendosi tirare il fili (non siamo duttili alla perdita), non dimostra compliance (non ci comportiamo come una membrana microfonica). Non assorbiamo il lutto, il trauma, la malattia, né lo rimbalziamo, rendendocene impermeabili. Se siamo resilienti, ci comportiamo come il pavimento della sala danza: lo subiamo senza fratturarci e favoriamo il suo allontanamento, impedendogli di mettere radici dentro di noi. Favorire la resilienza del paziente, e la nostra stessa, è un compito.

lunedì 28 gennaio 2013

Anni fa, non so se si trattasse del report di un articolo scientifico o di una leggenda passata per tale, avevo letto su una rivista che una pianta, posta a fianco di una pentola in ebollizione, dimostrava segni di sofferenza quando in quella venivano gettati dei gamberi vivi. Una sorta di "vitale partecipazione" alla morte di un altro essere vivente. Questo è quello che provo ogni volta che  leggo della sofferenza degli altri o che la incontro per la strada o nel mio studio. Per un circuito, che non ha nulla a che fare con le fibre afferenti nocicettive, i miei neuroni entrano in sofferenza, in condoglianza. E questo non mi genera solo un malessere psichico (come potrebbe essere se si trattasse solo di un'increzione di cortisolo) ma un dolore fisico, così che tutta la mia omeostasi ne viene turbata. La morte di tanti ragazzi, che avrebbero potuto essere stati miei figli, nella discoteca brasiliana, i morti dell'Egitto in questi giorni, tutto mi fa male. Mi ricordo una lettera di Raine Maria Rilke a Lou Salomé nella quale descriveva, con perizia da neurologo, un passante affetto da corea  e la sofferenza insopportabile che l'incontro gli aveva generato. Incontro tanto significativo da essere inserito, trasposizione della vita in arte, nel suo testo "I quaderni di Malte L. Brigge".